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Archivio per il giorno “dicembre 9, 2011”

Schopenhauer elementi

Schopenhauer incomincia il suo capolavoro Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), con la celebre affermazione: “Il mondo è mia rappresentazione” (I,1). Che cosa significa questa espressione? Leggiamolo dalle parole stesse di Schopenhauer: “Egli sa con chiara certezza di non conoscere né la terra, ma soltanto un occhio che vede un sole, e una mano che sente il contatto d’una terra; egli sa che il mondo circostante non esiste se non come rappresentazione, cioè sempre e soltanto in relazione con un altro essere, con il percipiente, con lui medesimo” (cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione, I §1, trad. it. Milano, Mondadori, 1992, p. 31). Che il mondo sia una nostra rappresentazione, che nessuno di noi possa uscire da se stesso e vedere le cose per quello che sono, che tutto ciò di cui si ha conoscenza certa si trovi dentro la nostra coscienza, è la verità della filosofia moderna da Cartesio in poi, ed è una verità antica perché già detta nei Veda induisti.

 

Il mondo è dunque mia rappresentazione. Ora, la rappresentazione ha due aspetti necessari e inseparabili, il soggetto e l’oggetto. Da ciò segue che il materialismo è in errore perché nega il soggetto riducendolo ad oggetto cioè a materia, ma anche l’idealismo di Fichte è sbagliato perché nega l’oggetto riducendolo al soggetto; d’altra parte, Schopenhauer critica anche il realismo ingenuo, quando sostiene che la realtà esterna si rispecchia per quello che veramente è nella nostra mente.

 

Schopenhauer ritiene invece che la nostra mente, anzi più esattamente e concretamente, il nostro sistema nervoso e cerebrale funzioni inquadrando tutti i fenomeni in tre forme a priori: spazio, tempo e causalità.

Pur stando così le cose, il nostro intelletto non ci porta oltre il mondo sensibile.

 

Però, al di là del sogno e del fenomeno, vi è la realtà vera, sulla quale comunque l’uomo non può fare a meno di interrogarsi. Infatti l’uomo è un “animale metafisico”, e dunque, a differenza degli altri animali, è portato naturalmente ad interrogarsi sull’essenza ultima della vita.

 

 

Infatti poiché noi siamo dati a noi stessi anche come corpo, non ci limitiamo a vederci dal di fuori, ma ci viviamo anche dal di dentro, godendo o soffrendo. Più che conoscenza e intelletto, noi siamo, per Schopenhauer, vita e volontà di vivere, cioè un impulso irresistibile che ci spinge ad esistere e ad agire. Il nostro stesso corpo non è che la manifestazione esteriore delle nostre brame interiori

 

Quali sono le caratteristiche della Volontà? Essa, essendo al di là dei fenomeni, non può essere legata allo spazio, al tempo e alla causalità. Essa è poi inconscia perché la coscienza e l’intelletto costituiscono soltanto una delle sue possibili manifestazioni (è tale solo nell’uomo): per cui essa non si identifica con la nostra volontà cosciente ma è, si ricordi, una sorta di energia o impulso, che, in questo senso, è presente dovunque, anche nella materia inorganica e nei vegetali.

 

Affermare che l’essere è la manifestazione di una Volontà equivale allora a dire che la vita è dolore per essenza. Se volere infatti significa desiderare, e desiderare significa essere in uno stato di tensione, per la mancanza di qualcosa che non si ha e si vorrebbe avere, la vita è per definizione assenza, vuoto, indigenza ossia dolore.

 

Il dolore però non riguarda soltanto l’uomo ma investe ogni cosa. Tutto soffre, dal fiore che appassisce all’animale ferito; e se l’uomo soffre di più è perché, avendo maggiore consapevolezza, è destinato a patire maggiormente l’insoddisfazione del desiderio e le offese dei mali. Per la stessa ragione il genio, avendo maggiore sensibilità rispetto agli uomini comuni, è votato ad una maggiore sofferenza. In tal modo, Schopenhauer perviene ad una delle più radicali forme di pessimismo cosmico di tuta la storia del pensiero, ritenendo che il male non sia solo nel mondo ma nel principio stesso da cui tutto dipende.


da:

http://www.linguaggioglobale.com/filosofia/txt/Schopenauer.htm

Schopenhauer frasi

 

I giorni felici li viviamo senza accorgercene, e solo quando arrivano quelli brutti tentiamo invano di richiamarli indietro.

 

La vita umana è un eterno conflitto. L’uomo muore con le armi in pugno.

 

Di una persona si guarda la vetta e non la base.

 

 

Più intelligenza avrai, più soffrirai.

 

Quelli che si amano e che sono nati gli uni per gli altri,
si incontrano facilmente:
le anime affini
si salutano già da lontano.

La musica, intesa come espressione del mondo, è una lingua universale al massimo grado, e la sua universalità sta all’universalità dei concetti più o meno come i concetti stanno alle singole cose.

 

Coloro che combinano discorsi difficili, oscuri, confusi e ambigui sicuramente non sanno affatto cosa vogliono dire, ma hanno soltanto un’oscura consapevolezza che ancora si sforza di trovare un pensiero. Spesso però essi vogliono celare a sé stessi e agli altri che non hanno nulla da dire.

 

All’uomo intellettualmente dotato la solitudine offre due vantaggi: prima di tutto quello di essere con se stesso e, in secondo luogo, quello di non essere con gli altri.

 

C’è un unico errore innato, ed è quello di credere che noi esistiamo per essere felici.

 

La conoscenza è fatta di una materia più dura di quella della fede sicché, quando si urtano, è la fede a spaccarsi.

 

Tutto ciò che accade dalle cose più grandi a quelle più piccole accade necessariamente.

 

Chi crede non pensa; chi pensa non crede

 

Qui auget scientiam, auget et dolorem.
Qui auget dolorem, auget et scientiam.

Come aumenta il sapere, così aumenta il dolore.
Come aumenta il dolore, così aumenta il sapere.

Le altre parti del mondo hanno le scimmie; l’Europa ha i francesi. La cosa si compensa.

Si sappia che le menti scadenti sono la regola, le buone l’eccezione, le eminenti rarissime e il genio un miracolo.

 

La bellezza è una lettera aperta di raccomandazione che conquista subito i cuori.

Tutte le verità passano attraverso tre stadi. Primo: vengono ridicolizzate; secondo: vengono violentemente contestate; terzo: vengono accettate dandole come evidenti.

 

La salute non è tutto, ma senza salute tutto è niente.

 

Più ristretto è il nostro campo di azione, di visuale e di relazioni, e più siamo felici.

Gli uomini completamente privi di genio sono incapaci di sopportare la solitudine.

 

È la cattiveria il collante che tiene insieme gli uomini. Chi non ne ha abbastanza si distacca.

Io non ho scritto per gli imbecilli. Per questo il mio pubblico è ristretto.

Alla fine tutti quanti siamo e restiamo soli.

La giovinezza senza la bellezza ha pur sempre del fascino; la bellezza senza la giovinezza non ne ha alcuno.

Se un Dio ha fatto questo mondo, non vorrei essere quel Dio: la miseria che l’uomo vi ha creato mi spezzerebbe il cuore.

Quello che abbiamo può non farci felici ma quello che ci manca ci fa sicuramente infelici.

 

Una buona dose di rassegnazione è di fondamentale importanza per affrontare il viaggio della vita.

 

Desiderare l’immortalità è desiderare la perpetuazione in eterno di un grande errore.

 

 

 

 

 

Articolo parsifal e il graal

 

Wagner e il Sacro Graal
[aurora capoferro ronchetta]
La prima rappresentazione del Parsifal si è svolta a Bayreuth, il 26 luglio 1882 e fu solo molto più tardi, addirittura dopo il 1914, che il Parsifal wagneriano riuscì a diffondersi in tutta l’Europa.
Quest’opera riesce ad essere al contempo la rappresentazione di un’azione sacrale, lo specchio delle teorie filosofiche contemporanee al suo compositore (in particolar modo quelle di Schopenauer) ed infine, meravigliosa leggenda. Dopo aver letto, in gioventù, un romanzo del tredicesimo secolo, Parzival di Wolfram von Eschenbach, (per il quale il Graal era, a dire il vero, una pietra magica) Wagner inizia nel 1877, in quelli che furono gli anni estremi della sua vita, a dedicarsi alla composizione del libretto e della musica che saranno corpo ed anima di una favola mistica; cinque anni di lavoro che correlano fra loro elementi di diverse leggende per fonderli in una sola: la storia, non tanto del Santo Graal, quanto della redenzione di Parsifal. A dire il vero l’intera storia brulica di redenzione: non solo quella di Parsifal ma anche quelle di Amfortas e Kundry; difatti questo tema è notoriamente caro al nostro filosofo della musica e percorre tutte le sue opere giungendo, qui nel Parsifal, all’estremo limite del sublime, dopo il quale l’autore è obbligato in quanto giunto infine al termine della ricerca, in quel finale del terzo atto ammantato di luce mistica. Siamo ormai nei tempi in cui è già avvenuta la rottura con Nietzsche, e la filosofia wagneriana sposta i suoi occhi su Schopenauer e sulla sua ascesi, ma il lungo cammino che passando attraverso il peccato e l’ignoranza porterà il nostro protagonista al rifiuto di ogni egoismo e passione, alla pietà ed alla purezza, sfocerà in un autentico trionfo di mistica cristiana: un’esplosione di luce nascente dall’elevazione dell’amore a sentimento di compassione universale. Come sempre nelle opere wagneriane anche il Parsifal è ricco di prolessi ed analessi in maniera spaventosa: ai flashback delle storie relative al peccato di Amfortas, alla storia del malvagio Klingsor ed alla nascita della doppia personalità della bella Kundry (pietosa come la Maddalena pronta a divenire, a causa della sua maledizione, terribile creatura lussuriosa) ed alla morte della madre del nostro eroe si contrappongono numerosi piccoli elementi premonitori, spesso simbolici, che il lettore, o l’ascoltatore, potrà divertirsi a scovare nel testo a partire dagli stessi movimenti degli attori (il che implica una qualche conoscenza della simbologia cristiana e delle sacre scritture).
La struttura dell’opera è meravigliosamente simmetrica come in un gioco in cui si accolti dallo specchio dell’oscurità finissimo per uscire vincitori nello specchio della luce, una luce tremendamente abbagliante: quella divina.
È inutile illudersi in un’entrata di Parsifal come cavaliere puro, l’entrata in scena è estremamente casuale: non quella di un cavaliere ma quella di un ragazzo colpevole di aver ferito a morte un cigno, e chi ha esperienza delle leggende arturiane conosce bene a priori questo personaggio.
È un cammino, lento e travagliato quello che porta il nostro eroe, “un puro folle”, a comprendere l’importanza del Graal e l’essenza del suo peccato (il dolore inflitto alla madre dalla sua sparizione), ad osservare la sua vera storia e la sua vera natura, a resistere alle tentazioni (la seduzione delle ragazze fiore ed il bacio di Kundry, ovvero: “la più forte e più poeticamente audace figura femminile tra quelle che Wagner ha concepito” a detta di Thomas Mann) e ad aprire gli occhi sul dolore umano di Amfortas (fase non ultima del percorso che lo trasformerà in messaggero di salvezza).
È estremamente interessante il modo in cui Wagner affronta la storia del Graal. Per una piccola analisi degli elementi utilizzati dal Nostro vorrei offrire qui una piccola descrizione delle loro origini “accertate” dal punto di vista letterario.
IL GRAAL

Il termine graal designa in francese antico una coppa o un piatto e probabilmente deriva dal latino medievale gradalis, vaso. Fu Robert de Boron, nel suo Joseph d’Arimathie, composto tra il 1170 ed il 1212, che aggiunse il dettaglio secondo cui il Graal sarebbe la coppa usata nell’Ultima Cena, all’interno della quale Giuseppe di Arimatea avrebbe poi raccolto le gocce di sangue del Cristo sulla croce, come raccontato da alcuni testi apocrifi come le Gesta Pilati o lo Pseudo-Vangelo di Nicodemo. Il Graal appare per la prima volta sotto forma letteraria nel Perceval ou le conte du Graal di Chrétien de Troyes (XII secolo)

LANCIA DI LONGINO E SOFFERENZA DI AMFORTAS
(dal racconto del re pescatore)

La storia del Re pescatore ed il Graal fu più tardi incorporata nel ciclo arturiano. Il racconto riguarda, essenzialmente, un re zoppo la cui ferita alla gamba rende la terra sterile:
“Il Re Pescatore è stato colpito da una grave infermità: questo male, sappilo, non guarirà – né si salderà la pietra al posto della Tavola Rotonda su cui si è seduto Perceval – finché uno fra i cavalieri che siedono a questa Tavola non abbia compiuto grandi imprese e prodezze. Quando si sarà innalzato sopra tutti gli altri e sarà stato riconosciuto come il miglior cavaliere del mondo, Dio lo condurrà alla dimora del ricco Re Pescatore. E quando avrà domandato a cosa serve il Graal e chi viene servito con esso, allora il Re Pescatore guarirà, la pietra della Tavola Rotonda si salderà e si dissolveranno gli incantesimi che gravano attualmente sulla terra di Bretagna”.
L’eroe (Gawain, Percival, o Galahad) incontra il re pescatore ed è invitato ad una festa al castello. Il Graal è ancora presentato come un vassoio di abbondanza ma è anche parte di una serie di reliquie mistiche, che includono anche una lancia che stilla sangue (da alcuni interpretata come la Lancia di Longino, il soldato che trafisse il costato del Cristo) ed una spada spezzata. Lo scopo delle reliquie è di incitare l’eroe a porre domande circa la loro natura e quindi rompere l’incantesimo del re infermo e della terra infruttuosa, ma l’eroe invariabilmente fallisce nell’impresa.


KUNDRY / MADDALENA (similitudini e antitesi)

Il maleficio che affligge Kundry è dovuto, nella storia wagneriana, al suo più grande peccato: sarebbe lei la donna che ha deriso il Cristo in croce. Riguardo alla maledizione non ci sono riscontri nelle sacre scritture; come la Maddalena nei confronti del Cristo, ad ogni modo, Kundry laverà ed ungerà i piedi di Parsifal con un unguento.
Si racconta, inoltre, che Maddalena predicasse in tutta la regione, convertendo i pagani, con il fervore di una santa, (la statua lignea di Donatello mostra infatti la bellezza ormai totalmente sfiorita di una Maddalena che prega nel deserto, con le vesti lacere), allo stesso modo, nel terzo atto Kundry grida – Servire! Servire! – infervorata dal desiderio di servire Dio ed il Graal.

RICERCA DEL GRAAL

Per quanto riguarda invece la ricerca del Graal, alcuni racconti del ciclo arturiano presentano cavalieri che ebbero successo, come Percival o Galahad; altri raccontano di cavalieri che fallirono nell’impresa per la loro impurità, come Lancillotto.
Una delle teorie recenti che ha fatto scalpore è quella avanzata da Baigent, Leigh e Lincoln, nel loro The Holy Blood and the Holy Grail (Il mistero del Graal, 1982). Gli scrittori hanno avanzato l’ipotesi che in realtà il Graal non sia un oggetto ma la linea di sangue della stirpe dei discendenti di Gesù Cristo. Partendo dalla similitudine etimologica di San Graal e di sang real, asseriscono che Gesù avrebbe sposato Maria Maddalena, e con lei avrebbe avuto dei figli, i cui discendenti sarebbero la dinastia dei Merovingi. Questa tesi è stata posta dallo scrittore americano Dan Brown alla base del suo romanzo best seller Il codice da Vinci, molto criticato per le sue incongruenze storiche. Questa, come altre informazioni sulle fonti delle leggende, divide la verità della ricerca dalla leggenda, o peggio, dalla “leggenda romanzata”. È praticamente impossibile parlare di fonti assolutamente vere quando il tema di cui si tratta è una leggenda antica, nata ben settecento anni fa, ed è anche difficile parlare di fonti verosimili, e proprio perché non siamo naturalisti come Zola, ma semplici lettori, dobbiamo chiarire nelle nostre menti che qualsiasi materiale scritto ci capiti di leggere in proposito non può essere considerato in grado di tangere la realtà al punto da essere “messo all’indice”, né farci stupire dal clamore dei giornali al punto da considerarlo verità storica assodata. Per quante controversie possa causare un’opera (musicale e wagneriana o letteraria e scritta da Brown è indifferente), non dobbiamo mai dimenticare che la realtà storica è in mano solo ed unicamente a chi usa gli strumenti della ricerca e non quelli dell’illazione. Bisogna inoltre tenere bene a mente, prima di parlare di argomenti le cui fonti più certe sono meno numerose dei voli fantastici di cui sono protagoniste, che la realtà, per quanto noiosa, non può fondersi a tal punto con la fantasia. Il sogno ed il volo fantastico sono due meravigliose necessità umane, due aspetti sfolgoranti della passione ed elementi caratterizzanti dell’umanità, espressioni altissime e potentissime dell’arte non completamente condivisibili con altri, in poche parole arte pura. Non storia né scienza.

 
Richard Wagner
Richard Wagner, compositore, scrittore, pensatore e librettista – nonché impresario teatrale di se stesso – che ha sconvolto la musica dell’Ottocento, nasce a Lipsia il 22 Maggio 1813.
Rimasto orfano di padre, Richard Wagner rimane solo con la madre che presto convola a seconde nozze con l’attore Ludwig Geyer. Quest’ultimo, affezionatosi al bambino, lo porta sempre con sé in teatro: il contatto assiduo con il mondo del palcoscenico lascerà nella mente del fanciullo un’impressione incancellabile. Dopo aver intrapreso in modo discontinuo gli studi musicali, nel 1830 Wagner si dedica seriamente a questa disciplina sotto la guida di Theodor Weinlig, alla Thomasschule di Lipsia. A Würzburg compone la sua prima opera Die Feen, dall’impianto melodico e armonico ancora poco definito, con forti influenze dello stile di Weber. Approdato a Parigi nel 1836 sposa la cantante Minna Planner. È in questo periodo che matura la decisione di scrivere i libretti dei propri drammi in piena autonomia, assecondando in questo modo la sua cognizione personale di teatro musicale. Richard Wagner si spegne il 13 febbraio 1883 a causa di un attacco cardiaco. La sua salma viene sepolta a Bayreuth vicino al suo teatro.
Liszt compone, sulla scia dell’intensa emozione, visionari e aforistici brani pianistici in memoria dell’amico scomparso (fra i quali il lugubre, annichilito, R.W.- Venezia).

 

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